Il colore secondo Jorrit Tornquist – Intervista agli invitati del PcT 2018
Se parliamo di colore dobbiamo parlare di radiazione elettromagnetica, che è un’energia vitale che non ha nulla a che fare con la visione e alla quale reagiamo tutti nello stesso modo, noi uomini in un modo, altri animali in altro modo. Esistono anche animali non vedenti però l’influenza della radiazione elettromagnetica è presente. Il pipistrello non vede ma anche il pipistrello sottostà alla radiazione. L’infrarosso e l’ultravioletto sono radiazioni elettromagnetiche che noi non vediamo ma che altri vedono.
Parliamo di due cose distinte: una serve per vedere il mondo, che è la piccola parte dello spettro elettromagnetico, quella che noi riusciamo a interpretare come colore, le lunghezze d’onda che vengono captate e che il cervello trasforma in informazioni.
“Colore sempre vivo” è il tema del Premio Città di Treviglio. E’ una frase che condivide nella sua opera?
Finché siamo vivi noi è vivo anche il colore, è chiaro. Il colore non esiste fuori da noi, e questo è il vedere, ed è una cosa standard, non c’entra niente con la cultura; l’interpretazione della visione invece chiaramente sì, c’entra con la cultura, perchè i colori hanno valori anche simbolici dal quale non possiamo distaccarci, che spesso cambiano se cambiano le simbologie; non è quindi una cosa stabile.
Non è di per sé la differenza tra istinto e cultura. Sicuramente noi siamo legati al cristianesimo dove il giallo è diventato il colore di Giuda, quindi degli ebrei, come infatti era la stella di Davide nel Terzo Reich. Il Vaticano ha come colore l’oro, a simboleggiare la ricchezza. Se andiamo in oriente il giallo è invece un colore molto ammirato, è quasi divino e questi sono aspetti culturali.
A me non interessa tanto l’aspetto culturale, a me interessa soprattutto la percezione del colore. Io ho studiato biologia, perciò il mio interesse è sempre rimasto in quella direzione: come percepiamo il colore, che cosa ci comunica e che codici di comportamento ci provoca?
L’opera che verrà esposta fa parte del periodo in cui non mi consideravo ancora artista, studiavo architettura dopo aver studiato biologia. È un lavoro legato alla mia ricerca sull’orientamento dell’uomo nello spazio. Sintetizzando molto, l’uomo nella sua evoluzione è diventato un bipede. Diventando bipede la direzione del movimento è cambiata: non più lungo l’asse della spina dorsale come prima a quattro zampe. Il movimento originario veniva bloccato e il davanti era prima il sotto. C’è stato un capovolgimento. L’opera che espongo rispecchia la mia ricerca del colore come orientamento spaziale.
Spesso fa riferimento al colore come mezzo di orientamento. Il colore è strumento per ridare ordine alla nostra percezione?
È una mia interpretazione che corrisponde un po’ ai nostri sentimenti. Per me il colore non è un valore astratto, è sempre legato alle emozioni perché noi captiamo tutto il mondo tramite i nostri sensi. Trasformiamo i nostri sensi anche grazie a macchine più sensibili, come le bilance, i binocoli, e altro, ma partiamo sempre dalle nostre capacità sensoriali. La percezione è sempre legata al senso, che di per sé ha sempre un aspetto emotivo. Per me non esiste l’arte astratta perché è sempre sensoriale.
Spesso nei suoi ambienti utilizza pochi colori, a volte solo quattro e sono colori timbrici, superfici piene. Questa riduzione delle forme in virtù del colore puro genera una sensazione di pulizia, calma: è anche in contrapposizione al fatto che siamo quotidianamente bombardati di immagini e colori?
Certamente una volta il bombardamento era molto minore. Oggi il bombardamento è estremo e non funziona neanche più perché quando si estremizza nasce il disorientamento e a quel punto i messaggi non arrivano più nel modo corretto. Creiamo sempre più bombardamenti cromatici e perdiamo sempre di più la percezione cromatica. Non sono fenomeni legati, ma accadono. Non c’è più la selezione naturale perciò anche chi non ha la piena percezione dei colori riesce per esempio a mangiare, mentre prima non trovava le prede. Il colore certamente va riportato ad un certo ordine.
Utilizza approcci diversi in merito al colore quando ha a che fare con un ambiente e quando invece sta creando un’opera?
Quello che io faccio come applicazione all’ambiente non è direttamente collegato a ciò che faccio come artista. Se realizzo un quadro ne sono responsabile solo io e non mi interesso dell’utilizzatore, non posso creare alcun danno a nessuno. Se faccio un ambiente devo tenere conto di una percentuale di utilizzatori che devono star bene in esso, altrimenti non ha senso. È il caso degli ospedali in cui ho lavorato, luoghi dove la maggior parte dei clienti deve star bene: non c’entra più niente il buongusto, l’estetica, c’entra il far sentire il paziente a proprio agio e permettere al medico di lavorare bene. Una volta, o ancora oggi in gran parte, gli ospedali sono bianchi. Se prendo una donna di mezza età, dalla campagna, e la faccio spogliare davanti a una parete bianca genero disagio, spavento. Bisogna tenere conto delle persone, del loro ambiente, delle loro problematiche. Una stanza d’ospedale ha bisogno di un colore che faccia sentire a casa propria. Non devo creare design, devo pensare al benessere e non c’entra neppure con il fare un quadro.
Quindi quando invece dipinge quadri è un’operazione più interiore, personale?
Sicuramente. So anche che il quadro deve funzionare come messaggio che io lancio, però non è la priorità. La maggior parte dei quadri non viene colta immediatamente, possono passare anche degli anni. Il quadro per me è un dialogo che io faccio per me stesso: mi chiedo se il mondo lo vedo ancora correttamente, se funziona, è una psicanalisi, mi interrogo e dopo, per verificare, creo un ambiente per vedere i miei pensieri funzionano.
Perché uno diventa un artista? Perché non è contento del mondo nel quale è stato buttato e cerca di crearsi un mondo accettabile. Se ha fortuna, quel mondo accettabile viene anche accettato dagli altri e a quel punto diventa anche un artista famoso. Se vede troppo in anticipo nessuno riesce a coglierlo, può essere l’artista più bravo del mondo ma nessuno si interesserà a lui e non sarà mai famoso. Perciò non è tanto la qualità dell’arte che determina il successo: ha successo chi riesce a prevedere i prossimi passi della società, senza essere troppo avanti. Chi è più avanti può rinascere dopo, come Van Gogh e come altri, o può essere completamente dimenticato. Sono giudizi che facciamo molto dopo, non facciamo oggi.
Ci vuole la distanza temporale per collocare correttamente…
Sicuramente. Artisti oggi famosi li troveremo forse al mercato delle pulci. Oggi le banche investono molto in arte e devono mantenere quindi alti i valori su cui hanno investito perciò il processo è molto diverso. Ho sempre detto ai miei studenti: l’arte è dove c’è capitale, non è altro. Se alcune tribù africane diventassero la popolazione più ricca e potente, quello che oggi compriamo come souvenir sarebbe arte.
Non esiste una dimensione intima dell’arte che va al di là del successo di mercato, una sorta di arte per benessere personale, un filone diverso da quello che ogni artista comunque crea per intercettare i gusti del pubblico e quindi avere successo commerciale?
L’arte intima non esiste perché l’arte è sempre un colloquio con l’esterno. Nella mia situazione nasce proprio confrontandomi con l’esterno, è sempre un dialogo e va portato per forza all’esterno. Se poi possa non esserci alcuna eco all’esterno è un’altra questione. Ci sono artisti che si sono suicidati, oppure che compiono azioni eclatanti, come girare nudi, per attirare l’attenzione del pubblico perché con la propria arte non riescono, perciò provocano volutamente per invitare ad un cambiamento di visione. Tra Mondrian e qualcuno che si spoglia nudo non c’è molta differenza: ambedue cercano di cambiare percorso alla realtà, anche se chiaramente sono legati a periodi diversi. Quello che è valido nell’arte è legato al periodo come contenuto, ma non come qualità, perché se sono veramente opere d’arte hanno sempre valore. La qualità, se c’è, è fuori dal tempo: ha una connotazione legata al tempo attuale, per forza, ma ha anche una radice non temporale altrimenti non è un’opera d’arte, è una moda e basta. Anche la moda ha la sua importanza, ma è un’altra cosa.
C’è quindi anche un base di provocazione nel fare arte per spingere a vedere in un altro modo?
Non è una provocazione, è una necessità. Chi ha talento non si trova a suo agio in questo mondo perché vede oltre e deve crearsi un nuovo mondo. Che questo mondo sia politico, artistico o quello che sia rappresenta sempre la necessità di trasformare per migliorare il mondo. L’arte è questo: proporre nuovi modelli.