Il colore secondo Michelangelo Penso – Intervista agli invitati del PcT 2018
Io lavoro sempre partendo da una base scientifico biologica. Il mio lavoro si basa sull’osservazione di particelle e elementi nanometrici, microscopici. Lavorando sulla materia, lavoro su quello che è il colore nella fisica, perché interessandomi poi delle particelle di base mi interessa anche la base del colore e della materia. Quello che noi vediamo come colore è la luce che ogni materiale riflette: se noi vediamo un oggetto verde vuol dire che riflette tutti i raggi che vanno dal blu al giallo mentre in effetti la materia vera, quella che noi vediamo come forma ma non come colore, è rossa, perché trattiene tutte le frequenze. Sono leggi fisiche e dunque quando io uso del materiale viola sto rappresentando un oggetto giallo, se lo vedessimo nella realtà, è sempre virato. Ovviamente cerco della materia che abbia già per se stessa il colore che mi serve.
Il suo è un approccio scientifico al colore più che emotivo. La sua ricerca mira più a indagare la percezione che le potenzialità espressive del colore?
È decisamente così.
Il colore è uno strumento fondamentale per comprendere la realtà. La ritiene una proprietà fisica del colore oppure una conseguenza della stratificazione culturale?
Certamente le regioni geografiche hanno un grosso peso sulla lettura personale o collettiva ma per il taglio che do io alla ricerca scientifica il colore è importante perché riesce a definire diversi tipi di sostanze, diventa quasi didascalico. È ovvio che in culture diverse la lettura del colore ha un peso diverso; se lei immagina gli eschimesi, hanno per il colore bianco svariati nomi perché esprimono le varie sfumature della neve, mentre per noi il bianco è bianco anche se sta in un range che può variare di molto.
Nella sua opera il colore mi guida, mi aiuta a comprendere, è riportato all’essenzialità, a una funzione di relazione diretta. Nella nostra società viviamo una sorta di iper esposizione alle immagini e quindi ai colori: lei avverte il pericolo di perdere questa immediatezza comunicativa?
È una cosa che viviamo quotidianamente, che l’individuo abbia o meno la capacità di comprenderlo, nel mio caso il colore ha una funzione analitica, dunque proprio per non cadere in incertezze e ambiguità diventa punto fermo e diventa una cosa molto esplicita, diventa un gridare un concetto e non farlo capire tra le righe. È diretto come è un po’ la ricerca scientifica: abbandono tutto ciò che sembra ambiguo per stare nelle cose certe, nelle cose esatte se pur si sa che anche nella ricerca scientifica la contraddizione può avvenire da un giorno all’altro nel momento in cui si fanno dei progressi. Io tra l’altro non lavoro con delle immagini ma con delle forme anche per questo, perché le forme sono quelle, sono vere, l’immagine può essere ambigua e ormai credo non abbia più molto senso lavorare in questa direzione visto che ci sono già altri che si sono applicati in questi territori.
Nella comprensione della sua opera quanto è importante conoscere il contesto in cui verrà collocata, quindi la relazione con lo spazio e i colori pre-esistenti?
Io lavoro abbastanza sull’installazione legata a uno spazio specifico, quello che viene chiamato site specific. Ultimamente ho realizzato un lavoro nella Reggia di Caserta in cui ho lavorato con ambienti carichi di decorazione e ho dovuto cercare di fare un’opera che potesse inserirsi, sempre con i miei colori molto fissi, molto netti. È importante anche capire il taglio e l’atmosfera dell’evento, come nel caso del Premio Città di Treviglio che è una mostra collettiva.
Quanto è importante uscire un po’ dal proprio ambiente per toccare modi di vedere diversi?
È importantissimo, la ricerca scientifica ne è un esempio perché ormai i gruppi di ricerca non sono mai di un’unica nazionalità ma sono ricerche trasversali portate avanti da scienziati che arrivano da tutto il mondo, staff formati da gente che proviene da tutte le parti. Anche l’arte è sempre ricerca, ha bisogno di continui contatti, contrasti, aggiornamenti e evoluzioni. È anche importante la lettura dello spazio che ogni cultura ha: noi siamo abituati a vivere in spazi cartesiani, con linee rette, ma ci sono culture che vivono in spazi totalmente tondi, senza spigoli, dunque è interessante viverli e capirli.
Quando progetta le opere pensa al contatto diretto con lo spettatore? Le immagina già in virtù della relazione con lo spettatore?
Decisamente calcolo anche questo: la fruizione da parte dell’osservatore. Però bisogna sempre considerare che c’è un’alta percentuale di errore in questo campo: alle volte rimango sorpreso anche io quando le vedo installate. Pensare l’opera nello studio, anche avendo visto il posto dove verrà collocata, significa andare incontro a risvolti quasi sempre interessanti di lettura che poi vedo che si riflettono nello spettatore. Cerco di porre attenzione anche a questa dimensione però forse è quella che riesco a gestire un po’ meno, la variabile un po’ meno calcolabile anche considerato che gli spettatori sono diversi e spesso con background culturali differenti dati anche dal sistema sociale, soprattutto nelle mostre internazionali.
